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07/09/2014
JAMAICA KINCAID: LA SCRITTRICE SENZA LIETO FINE
JAMAICA KINCAID: LA SCRITTRICE SENZA LIETO FINE
da La Repubblica
NEW YORK. Chi la conosce bene sa che la cosa a cui Jamaica Kincaid tiene maggiormente è la definizione di autrice di libri sul giardinaggio: perché ama le piante e la natura, e ritiene che sia necessario trovare qualcosa di puro e gioioso nel mistero doloroso della vita. Chi ne conosce la scrittura vede uno scarto tra le storie piene di abusi e ingiustizia e lo spirito appassionato ed ironico: i suoi libri non hanno mai un lieto fine, e lei ritiene che sia un dovere rifuggire ogni tipo di illusioni, per poter cercare la serenità nella quotidianità, che non è mai aurea. Questa convinzione si è accentuata con la morte del fratello, al quale dedicò lo struggente “My Brother”, ma è stata presente sin da quando fu allevata in condizioni di miseria da una madre singola. Nata ad Antigua con il nome di Elaine Richardson, ha vissuto il primo trauma quando è stata costretta ad abbandonare la scuola per lavorare come ragazza alla pari a Scarsdale, periferia ricca di New York: così le avevano fatto credere, ma in realtà faceva la donna delle pulizie. Decise di sfidare la vita rimettendosi a studiare, convinta che la cultura potesse offrire un riscatto, e, ottenuta una borsa di studio, cominciò a scrivere sul “Village Voice”: nacque in quel momento il nome con cui la conosciamo, scelto per diventare una persona diversa da quella umiliata dalla vita. I libri rivelarono una scrittura cristallina sino all’asprezza, e la semplicità con cui continua a scrivere di razzismo, sessualità e maternità testimonia una sincerità tormentata. La vita sentimentale è stata sempre travagliata: il matrimonio con Allen Shawn, figlio del direttore del “New Yorker”, è finito in un divorzio doloroso, sul quale ha scritto “Vedi adesso allora”. Lo aveva conosciuto facendo la gavetta proprio in quella rivista, dove era riuscita a diventare titolare della rubrica “Talk of the Town”. Nel giro di pochi anni divenne una firma tra le più apprezzate e meno conformiste, ma si dimise irrevocabilmente quando Tina Brown, diventata direttrice, affidò la supervisione editoriale di un numero del magazine alla comica Rosanne Barr. Nelle intenzioni della Brown si trattava di un’idea innovativa e femminista, ma per lei era una trovata stupida e volgare. Negli anni, la Kincaid ha conquistato estimatori diversissimi, che ne invidiano la spontaneità mai filtrata dall’intellettualismo: Susan Sontag, che la ammirava per il coraggio, parlò di “verità emotiva”. Lei le rispose che tutto quello che scrive “è vero ma nello stesso tempo non lo è”, perché l’esistenza è fallace come i nostri sentimenti. 
ANTONIO MONDA
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