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16/09/2015
LA NOTTE IN CUI VOLEVANO UCCIDERE BOB MARLEY
LA NOTTE IN CUI VOLEVANO UCCIDERE BOB MARLEY
da La Repubblica
Marlon James, nativo di St. Andrew, in Giamaica, ha scritto finora tre romanzi: The Book of Night Women, John Crow's Devil e Breve storia di sette omicidi, con il quale è entrato proprio ieri tra i sei finalisti del Booker Prize. I libri sono ambientati tutti nella sua isola d'origine, ma se i primi due gli hanno conquistato un sicuro apprezzamento critico, quest'ultimo, in uscita in Italia per Frassinelli, è diventato un caso internazionale, consacrandolo come una delle voci più interessanti e originali apparse ultimamente sulla scena letteraria.

James è uno scrittore per il quale il rapporto con la propria cultura appare imprescindibile, senza che ciò non divenga in alcuna maniera un limite: il radicamento locale diviene anzi il codice per condividere un'emozione universale. È un narratore dal talento vitale e personalissimo, che ha l'audacia di parlare in maniera diretta di temi eterni: il potere, la falsità e la corruzione, materiale e spirituale. Il romanzo, che parte dall'aggressione di sette uomini armati di mitra nella villa di Bob Marley alla vigilia un suo concerto, ha uno stile musicale, polifonico, e mescola fatti realmente accaduti con altri immaginari: ne risulta un affresco di folgorante potenza, dai colori vividi e contrastanti. Sul New York Times Michiko Kakutani lo ha accolto con una benedizione che non ha precedenti: «È un romanzo epico in tutte le accezioni del temine: ampio, ricco di mito e leggenda, originale, colossale e complesso. Ed è anche crudo, violento, caldo, carico di umor nero, denso e divertente: davvero un monumento alla grande ambizione e al prodigioso talento del suo autore».

«Non posso che dirmi lusingato», dichiara James nel suo appartamento di Minneapolis, «e oggi sono senza parole per eseterna dello spirito umano, e perché troppo spesso, troppa letteratura sceglie altre strade».

Come nasce questo romanzo? «L'aggressione a casa di Bob Marley è una vicenda che mi insegue ancora dopo trent'anni: si nascose che il cantante e la moglie erano stati feriti gravemente e mi sono sempre chiesto che fine avessero fatto gli intrusori. Solo nel 1991, dieci anni dopo la morte di Marley, un giornalista cominciò a parlarne: è da lì che nasce la mia vicenda di criminali che diventano spacciatori di crack e si legano al giro dei più grandi narcotrafficanti. In Giamaica abbiamo la tendenza a non parlare troppo di cose controverse, ma ora molti dei protagonisti sono morti e c'è una maggiore libertà».

Perché ha deciso di sviluppare la vicenda raccontandola a più voci? «Iniziai a scrivere diversi racconti collegati da un unico tema, ma non ne usciva nulla di buono. Sono stati alcuni amici a darmi questa idea: il mio modello è stato Faulkner».

Lei usa spesso termini in patois giamaicano. «Ho cercato di essere realistico, e credo che dopo una possibile difficoltà iniziale, il lettore si abitui: recentemente ho letto The Wake, scritto da Paul Kingsnorth in inglese medievale, e ho capito che entrare in un linguaggio è una gioia della letteratura».

Il libro ha molte scene di violenza. «È parte della vita: ho cercato di essere realistico».

C'è chi ha citato Quentin Tarantino e Oliver Stone. «Il cinema mi ha influenzato non meno della letteratura. Amo costruire le scene, una dopo l'altra, e mi piace immaginarle come se avessi uno storyboard».

Quali sono i film della sua vita? « Arancia Meccanica, Touch of Evil e The Grifters ».

Esiste un rischio di glorificare la violenza quando la si descrive? «Certo, ed è un rischio insidioso: l'arte deve avere un'etica. Ma attenzione: un'etica interna a se stessa, alla sua coerenza e armonia. La gratuità può essere immorale».

Crede nella funzione sociale dell'arte? «L'arte può avere una grande funzione sociale e politica. Ma non c'è niente di peggio di opere che nascono con un fine, sono condannate a essere cattiva arte. Tornando al cinema, un film che amo è Y tu mama tambien: in superficie è una commedia sessuale, ma poi capisci che nasconde l'angoscia della morte, e nello stesso tempo racconta in maniera folgorante molti problemi del Messico contemporaneo».

Qual è lo stereotipo sulla Giamaica che la offende maggiormente? «Che fumiamo tutti marijuana, ascoltiamo il reggae e vediamo il film Cool Running ».

Perché chiama Bob Marley semplicemente "the Singer"? «Perché per noi giamaicani non era fatto di carne e sangue, ma era un simbolo, un'icona. Una delle persona che lo aggredì avrebbe potuto ucciderlo, trasformandolo da simbolo in martire».

Nel libro compare un giornalista che comprende poco della realtà di quello che sta avvenendo: sembra un atto di accusa all'intera categoria. «Non arrivo a tanto, ma detesto il sensazionalismo di superficie e chi riesce a raccogliere tutte le informazioni senza vedere il quadro completo. Peggio ancora sono i giornalisti che raccolgono solo le informazioni utili ad una tesi precostituita».

Il romanzo racconta la collusione tra la criminalità e la politica. «In Giamaica sia i laburisti che i conservatori hanno avuto rapporti con la criminalità. Si tratta di un legame inscindibile, evidente quando alla morte di alcuni criminali senti dichiarazioni che parlano dei defunti come uomini che vanno giudicati nella loro interezza, o sono paragonati a Robin Hood».

Lei si ritiene uno scrittore di genere? «Non spetta a me dirlo, ma lo considero un complimento: è così antiquato considerare i generi qualcosa di minore. Io cerco di non usare metafore e di parlare di gente autentica: nei miei libri c'è violenza, ma anche meditazione. Il mio modello è un grandissimo scrittore per troppo tempo recluso nel genere, Raymond Chandler».

ANTONIO MONDA
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