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21/11/2007
AMIS NON è UN RAZZISTA, SI OPPONE AI FANATICI
AMIS NON è UN RAZZISTA, SI OPPONE AI FANATICI
Una replica all'intervento di ronan Bennet, che ha accusato lo scrittorie inglese di fomentare l'odio contro i musulmani
L' invettiva maldestra lanciata da Ronan Bennett contro Martin Amis sul Guardian di lunedì scorso non rappresenta uno spreco di spazio giornalistico, se ci consente di riesaminare i termini «discriminare » e «discriminazione». In una diatriba pubblica scatenata tra due professori universitari (Martin Amis e Terry Eagleton), non occorre ricordare ai lettori che questi termini sono complementari. Saper discriminare i sapori significa avere un palato fine, tanto per fare un esempio. Mi batto da anni per sostenere che questo concetto è assurdo quando si applica ai razzisti. La «discriminazione» è quello che i razzisti non sanno mettere in atto, anzi, non sanno proprio che cosa farsene. Un razzista è tale precisamente perché non sa distinguere tra due ebrei, o tra un asiatico e un nativo dei Caraibi o un ceceno. I gruppi da lui considerati «estranei» sono formati da amalgami generalizzati e non si prestano a eccezioni di sorta. Pertanto, accusare Martin Amis di razzismo è come dire che non sa vedere la differenza tra, diciamo, due irlandesi. Ora, un attimo di riflessione da parte del suo peggior nemico rivela invece che quell'accusa è sciocca e cattiva, e per di più infondata. Non scrivo come peggior nemico di Amis, ma come un amico che si è inalberato quanto gli altri alle sue parole, pronunciate in una conversazione non registrata con un giornalista del Times, subito dopo i paurosi attentati da parte di fanatici musulmani alla metropolitana londinese. (A proposito, sì, per me è essenziale qualificare quei musulmani come «fanatici» in questo caso). Il mio articolo, scritto l'autunno scorso, è stato pubblicato sul Manhattan City Journal a gennaio di quest'anno, e per questo Bennett non ha motivo di congratularsi troppo con se stesso per essere stato l'unico, oltre a Eagleton, ad aver avuto il coraggio di sollevare obiezioni.
Ho messo le affermazioni di Amis assieme ad altre due dichiarazioni rilasciate da persone che conosco meno bene. Jack Straw, vecchio e amabile socialdemocratico di lunga data e nemico giurato del razzismo, ha dichiarato che avrebbe preferito che i suoi elettori donna non si presentassero da lui con il volto coperto dal velo. Sam Harris, un ebreo che combatte da sempre teocrazia e fanatismo di qualunque colore essi siano, ha scritto che sono spesso i fascisti ad aver ragione quando parlano di immigrazione in Europa. Quest'ultima affermazione mi ha lasciato davvero sconvolto, molto di più dei commenti di Amis e Straw, e riflettevo su come la lotta contro l'islamismo spinga ottime persone a chiedersi ad alta voce se stiano forse dicendo o pensando cose spiacevoli o meschine. E questo è esattamente il toro che Amis voleva afferrare per le corna. Non occorre conoscerlo di persona, né tantomeno essere un esperto di Jonathan Swift, per vedere che la durezza di Amis non era affatto un suggerimento, bensì un esperimento sui limiti del pensiero ammissibile. Amis ha scritto in un'altra occasione: «Che me ne devo fare di pensieri del genere?». In quel celebre saggio era tormentato dall'idea di sterminare moglie e figli per risparmiar loro tutto l'orrore di una catastrofe nucleare. I critici che prendono tutto alla lettera, come Eagleton e Bennett, avrebbero indubbiamente individuato in queste parole una fantasia inconfessabile di omicidio e infanticidio.
Incapace di «discriminare», Bennett mette la critica dell'islamismo sullo stesso piano di antisemitismo, ostilità verso gli irlandesi, e ad altri fenomeni xenofobi del nostro passato. Ebbene sì, ricordiamo anche le bombe che i rifugiati ebrei, sfuggiti allo zarismo russo, piazzarono nelle nostre strade. Ricordiamo che, prima di essere pienamente integrati nella nostra società, anche gli ebrei lanciavano appelli al suicidio dalle sinagoghe, reclamavano a gran voce la segregazione dei sessi, pretendevano locali speciali per la preghiera sul posto di lavoro, l'esenzione da alcune leggi e la censura della stampa che non «rispettava» il giudaismo. Ci vuole una buona dose di fantasia per prestar fede all'universo di persecuzioni moderne che Ronan Bennett ci dipinge, dove «tutti coloro che segnalano l'illegalità degli insediamenti israeliani sono tacciati di antisemitismo e quelli che protestano contro la guerra in Iraq sono simpatizzanti di Al Qaeda o malati di relativismo morale ». In quale mondo a noi conosciuto accadono queste cose?
D'altro canto, il mondo dove avvengono matrimoni combinati e delitti d'onore è tristemente reale, e altrettanto lo è il mondo in cui le moschee distribuiscono videocassette e Dvd che istigano all'assassinio di ebrei e indù. (E questa sarebbe la preziosa risorsa del multiculturalismo). È il mondo in cui domina sovrano un libro sacro, che si può leggere esclusivamente in una certa lingua. È il mondo dove i diavoli sono veri, le donne impure e gli omosessuali inqualificabili, dove gli scrittori vengono condannati a morte e le bombe servono a far saltare in aria quelle «puttane» che vanno in discoteca. E la distruzione inflitta da quelle bombe, quella sì che è… indiscriminata. Non è solo in questo che Bennett si tradisce. Accenna ai «morti musulmani in Iraq e Afghanistan » e li recluta dalla sua parte. Ma come si permette? Ha pensato forse di contare i musulmani assassinati dai talebani? O le vittime dei massacri in Iraq, da quando Al Qaeda ha scatenato la campagna per distruggere le moschee sciite? Pensa forse che le forze dell'Alleanza del nord afgana, o l'Unione patriottica del Kurdistan, che lottano dalla «nostra» parte contro la barbarie, siano in qualche modo composte da musulmani meno autentici, perché preferiscono Bush e Blair al mullah Omar e ad Abu Musab al Zarqawi? Qualcosa mi dice che è proprio questo il suo problema. Bennett potrebbe avere un briciolo di ragione quando insiste che occorre fare una distinzione più netta tra Islam e «islamismo», ma se vuole maggiore discriminazione su questo punto deve imparare a non intorbidare le acque: pensa che i musulmani siano una «razza» oppure no, e se no, come può passare dal termine assai vago e dubbio di «islamofobia» fino alla velenosa accusa di «razzismo»?
Ho criticato sia Mark Steyn che Oriana Fallaci per aver scritto troppo ossessivamente di demografia quando si parla di immigrazione musulmana. Ma ogni qualvolta mi permetto di criticare una pratica religiosa reazionaria, ecco che mi si accusa di «insultare un miliardo di musulmani». Ma non è difficile trovare siti web islamici che strombazzano le future conquiste demografiche per i seguaci del Profeta. Allora, da che parte stiamo? Chi si deve dissociare da che cosa, e da chi? Questa situazione richiede tutta la nostra intelligenza culturale e politica e, non dimentichiamo, tutta la nostra «sensibilità». Ma temo proprio che i fedeli musulmani dovranno abituarsi all'idea che anch'io sono suscettibile di «offesa» e che anch'io nutro convinzioni profonde e inalterabili. Mi sembra molto peggio che insensato, davanti a una reale preoccupazione per il dilagare del fanatismo e della violenza incontrollata, accusare di pregiudizio proprio coloro che si sforzano sinceramente di rilanciare la questione, per sottoporla a dibattiti e chiarimenti.
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